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23/12/2018

Sull'altra riva




30/01/2018

Il Sorriso Del Pagliaccio Triste

Ci sono romanzi che si leggono tenendo in mano un segnalibro per indicare la pagina dove si è fermata la lettura e riprenderla più agevolmente. Ci sono poi dei romanzi che si leggono tenendo in mano una matita per sottolineare parole, frasi o periodi particolari, per annotare a margine pensieri, osservazioni. Il Sorriso del pagliaccio triste di Cesare Paradiso è uno di questi. Già dalle prime pagine che scorrono rapide sotto gli occhi si percepisce come la lettura non potrà essere puro intrattenimento o semplice svago, bensì occasione di conoscenza, riflessione, confronto. Un romanzo denso di personaggi, fatti, vicende, raccontati con una scrittura apparentemente semplice e agevole, ma in realtà molto sorvegliata e coinvolgente.
Non è la storia di un pagliaccio, come il titolo farebbe pensare. Questa figura familiare, (la cui caratteristica precipua, si sa, è di essere allegra e divertire a ogni costo), non è la protagonista. Non lo è neppure nel capitolo a lei dedicato, dove il pagliaccio non si muove, non agisce, evocato invece nella sua fissità, è un'icona rappresentata nella stampa trovata per caso su una bancarella in una fiera. I signori Napoli, i protagonisti, ne avevano acquistate più copie, una per ogni figlio, in modo che fosse un'immagine sempre presente nella loro vita. Una sorta di finzione al quadrato dunque: finzione dell'arte nella finzione romanzesca. E nello sviluppo della trama quell'immagine conserverà, in sottofondo, il suo risvolto enigmatico: all'ingenua domanda del figlio sul perché quel pagliaccio avesse un sorriso triste, Luciano risponde in modo sbrigativo. "avrà passato un guaio". E in un momento particolarmente disarmante, il padre non fa che tenere "lo sguardo fisso, chissà perché sul quadro del pagliaccio". E' insomma una figura evocata nella veste malinconica, di sapore romantico, che ci fa pensare al personaggio dell'opera di Leoncavallo, a quel suo cantare a se stesso "ridi pagliaccio, ridi del duol che t'avvelena il cor". Si potrebbe spiegare così l'ossimoro nel titolo del romanzo giacché, a lettura ultimata, si percepisce come il vero soggetto non sia tanto il sostantivo sorriso, quanto piuttosto l'aggettivo triste, parola chiave ricorrente, declinata nelle forme derivate (tristemente, tristezza, rattristare, ecc.), insieme con termini di campi semantici affini (infelice, mesto, addolorato, ecc.) disseminati nel testo e che danno il senso del vago pessimismo, a tratti anche un po' nostalgico, che aleggia nel libro.
Una domanda, al primo rigo ("Nonna, com'era il tuo abito da sposa?"), è l'espediente narrativo, il pre-testo per dare l'avvio alla costruzione romanzesca, ovvero al lungo percorso a ritroso nel mondo del ricordo.
La dimensione temporale struttura dunque la produzione del testo: il tempo dell'io narrante che oscilla tra presente e passato, e il tempo del narratore che interviene per prolungare e completare il racconto principale, tanto da non riuscire a volte distinguere tra la sua parola e quella di Eugenia, la protagonista, in un passaggio senza soluzione dal discorso diretto al discorso indiretto libero. C'è poi il tempo del presente della scrittura, il terzo millennio.
Subito le coordinate spazio-temporali: "2000 l'angolo delle confidenze" è il titolo del primo capitolo che ritorna in quasi tutti gli altri come filo conduttore. Un numero che è una data (il momento della narrazione), accostata a una figura geometrica che è però un luogo fisico (nel salotto di casa), laddove si svolge il la lunga conversazione fra nonna e nipote, descritto nei dettagli e che diventa luogo dell'anima e ancor più del cuore, perché accoglie anche un vissuto di ricordi, affetti, emozioni, sentimenti, passioni. Ha così inizio la lunga saga di una normale famiglia medio borghese e dei cinque figli, lungo la seconda metà del Novecento. Una micro-storia inframmezzata da una serie di rapidi squarci sulla macro-storia socio-politico-culturale, in un costante via vai della scrittura dall'evocazione di vicende di vita quotidiana alla rievocazione di vari accadimenti nazionali e internazionali. Queste le due direttrici fondamentali dello sviluppo narrativo che a tratti s'intersecano, a tratti procedono accostate in una forma di parallelismo cronologico tra un capitolo e l'altro, o anche all'interno di uno stesso capitolo, creando talvolta sottili corrispondenze fra fatti privati e pubblici. Da notare che conosciamo il 'quando' ma non il 'dove' della storia: i numerosi personaggi, sempre indicati con i loro nomi, vanno in scena in posti non definiti, volutamente, in modo che il lettore possa proiettarsi o commisurarsi con le vite altrui. A tale indeterminatezza geografica corrisponde, al contrario, una meticolosa, quasi ossessiva, indicazione temporale, come testimonia la ricorrenza insistita di date che non permettono di distrarsi dalla percezione del tempo che passa ineluttabile. Un tempo scandito lessicalmente in anni, mesi, giorni, ore, momenti, tra un prima e un dopo, tra una volta e un oltre, tra giovinezza e vecchiaia. Un continuo fluire che porta con sé modificazione in cose, persone, consuetudini e visioni del mondo, di generazione in generazione.
Il Tempo dunque vero grande tema, e con esso collegato il tema della Morte. Non a caso nel momento gioioso della nascita del primo figlio maschio che "riempiva di altra vita" la vita dei genitori, irrompe l'immagine del libro di Pavese, sul comò accanto alla culla, col segnalibro fermo su "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi", la poesia preferita da papà Luciano. E uno degli ultimi capitoli è dedicato proprio a questo momento supremo: parole che tentano di esorcizzare il punto finale di ogni esistenza che forse potrà continuare chissà sotto quale altra forma, chissà in quale altro luogo. Fiducia questa sorretta dalla forza dell'amore, altro grande tema del romanzo, raccontato nelle sue varie sfaccettature: dagli "amoretti giovanili" all'"amore che strazia", all'amore platonico, all'amore che non conosce confini, che va oltre la morte, sublimato nelle pagine conclusive del romanzo, sorta di testamento spirituale che Eugenia consegna alla nipote Gegia.
E una domanda, rivolta sempre dalla nipote (E' ancora grande il dolore, nonna?) servirà per chiudere il lungo dialogo su cui era imbastita tutta la diegesi. Una domanda simmetrica, speculare a quella iniziale che aveva 'provocato' il racconto, ma in tutt'altra prospettiva: laddove la prima apriva su un dato esteriore e superficiale, rievocando un momento di pienezza gioiosa (la festa nuziale), l'ultima domanda apre sulla dimensione interiore e profonda, rievocando un'esperienza di mancanza, di vuoto, di rimpianto di ciò che non sarà mai più.
E allora non è forse questa la parabola della condizione umana, nella sua polarità essenziale tra felicità e dolore, adombrata proprio in quel "sorriso del pagliaccio triste"?


(Felicita Perrone - già Docente di Letteratura Moderna Università del Salento)




06/11/2010

Ho paura della luce


Nel campo della letteratura posso inserirmi tra gli "amatori" poiché non sono intriso di un esperienza tale per permettermi di comporre una profonda critica ad un libro, non ne sarei capace. Però penso che stilare la recensione del terzo libro dell'Avvocato Cesare Paradiso possa rientrare nella mia "amatorialità".Possiamo definire "Ho paura
della luce" un ritorno al passato dell'autore che, dopo il suo primo racconto si è concesso un opera saggistica su Dossetti per poi ritornare sui suoi passi e dilettarsi nella stesura di ben tre racconti. Racconti veri. Termine non scelto a caso poiché sono storie in cui ognuno di noi si può rispecchiare. I temi trattati sono di ordine comune; insomma, la quotidianità è la ricetta segreta di questo libro che si potrebbe quasi paragonare ad uno specchio poiché chissà, magari il lettore ritrova comportamenti, ambienti o scene da lui già vissute; ed è una sensazione assai strana ritrovare quelle stesse emozioni stampate su carta. Passiamo al concreto ora. "Ho paura della luce" è
un opera che racchiude tre racconti, il primo dei quali ha il medesimo titolo del libro. Come appunto detto prima, la quotidianità regna sovrana tant'è che vi è la possibilità di interfacciarsi con i protagonisti durante la lettura. Da sottolineare come la soggettività dell'autore trasudi da ogni singola parola, ciò si denota da come molti dialoghi siano scritti con più verve in quanto riguardano l'attività professionale dell'autore, o come le scelte musicali - azzeccatissime - nella prima e nel terza storia "accompagnino" il lettore fungendo da sottofondo virtuale durante la lettura. Un piccolo excursus va dedicato al secondo racconto ("occhi cercano occhi") che esprime la piena
sensualità di una donna - argomento trattato sempre con il massimo pudore - e come ella riesca a trasmetterla attraverso il solo sguardo, quello sguardo che l'uomo si deve guadagnare. Proprio la figura femminile, infatti, viene sempre vista come un sensuale e intrigante mistero da comprendere e svelare. Ora, superficialmente si potrebbe anche affermare che i tre racconti non abbiano nulla che gli accomuni, ma ad una più accurata analisi si denota come vi sia invece un oggetto in comune: il finale. Non è il classico "e vissero tutti felici e contenti" di ogni racconto che si rispetti, ma deve essere la pura è semplice interpretazione personale di ciò che potrà accadere in un futuro non narrato (un "finale aperto", se queste parole rendono meglio l'idea). L'autore non vuol chiudere la storia dopo il fatidico punto, vuole solo che questa si sospenda.. E che continui nella mente del lettore. Insomma,
non è il classico finale che risponde agli interrogativi posti durante la lettura, ma che anzi lascia più quesiti di quanti non ve ne erano in partenza. Io, dall'alto della mia semplicità culturale, consiglio assolutamente la lettura di questo libro per il semplice motivo che provare a osservare la vita altrui da "elemento esterno" e magari sentirsi coinvolti nella vicenda è una esperienza davvero forte che va vissuta sulla propria pelle. E chissà, magari sparsi per le pagine del libro, vi attendono dei momenti di spensieratezza che, in un mondo frenetico e caotico come quello attuale, fanno sempre bene all'anima.


(Piero Cimmino)


06 /10/2010

Giuseppe Dossetti. Sentinella e discepolo

Mons. Fragnelli vescovo di Castellaneta rilegge la figura del prete e del monaco


Poche figure hanno segnato il dibattito politico ed ecclesiale nel corso del XX secolo ed oltre, si direbbe come quella di Giuseppe Dossetti, se vero che ancora a quattordici anni dalla sua morte si discute del senso della sua testimonianza al di là delle semplificazioni di maniera e delle letture liquidatorie di quanti lo proclamano superato, appartenente ad un'altra epoca, ma in qualche modo contribuiscono con le loro critiche livorose a mantenerne in vita la memoria.
Il volume pubblicato presso le Paoline da Cesare Paradiso e Pietro Maria Fragnelli (C.PARADISO P.M.FRAGNELLI Giuseppe Dossetti. Sentinella e discepolo Paoline, Milano 2010) costituisce un buon esempio di documentazione di prima mano su questa figura complessa ed affascinante intesa nel suo duplice significato di leader politico e religioso (e vero leader fu, in ambedue i campi, contro tutte le sue intenzioni ed aspirazioni), ricostruendone dal vero le parole e e le azioni attraverso le testimonianze di chi lo conobbe e, soprattutto, i suoi scritti, i suoi discorsi, le sue omelie di sacerdote e superiore della comunità che egli stesso aveva fondato.
La singolarità del volume sta anche nella diversa qualificazione dei due autori: il primo avvocato e pubblicista con un solido retroterra culturale e politico, il secondo prete e teologo da qualche anno assurto a Vescovo della diocesi pugliese di Castellaneta. Forse, se vi un limite complessivo nell'opera sta nella rigorosa definizione delle competenze, per cui il laico si concentrato sul Dossetti politico e costituente ed il Vescovo sul Dossetti prete e monaco, in una partizione che al biografato non sarebbe piaciuta convinto come era della comune responsabilità del popolo di Dio in ordine agli affari sia temporali che ecclesiali. In ogni caso, ricostruendo la fase formativa di Dossetti si comprende con chiarezza come il filo conduttore di tutta la sua esistenza sia stata una fede radicata e vivace, maturata nel contesto popolare di Cavriago, il piccolo Comune della pianura reggiana dove passò l'infanzia e la prima giovinezza, e poi affinata alla scuola di don Dino Torregiani, il prete dei poveri e di un assiduo contatto con la Parola di Dio. La ricostruzione di Paradiso e quella di mons. Fragnelli sono univoche nel ricondurre alla straordinaria dimestichezza con la Bibbia che Dossetti sempre coltivla cifra interiore di un impegno che quasi senza soluzione di continuità passa dal campo politico a quello ecclesiale con una costanza di approfondimento e di ricerca che si sarebbe manifestata, praticamente, fino alla fine della sua esperienza di vita.
E' importante la sottolineatura della coincidenza fra la riflessione di Dossetti, ancora impegnato nella dimensione laicale ma già fondatore del primo nucleo di quella che sarebbe stata la sua comunità religiosa, la Piccola Famiglia dell'Annunziata, e quella dell'allora Patriarca di Venezia , il card. Angelo Roncalli (che all'epoca Dossetti nemmeno conosceva), quando questi nel 1956 emanò una lettera pastorale con cui esortava i fedeli ad un contatto quotidiano e ravvicinato con la Parola di Dio, evidenziando la relazione strettissima fra tale Parola e la celebrazione quotidiana dell'Eucaristia, ossia della Parola fatta carne e sangue. Proprio tale legame interiore fra Parola ed Eucaristia fu il filo conduttore dell'attività di Dossetti come attivissimo perito del suo Vescovo, il cardinale Giacomo Lercaro, durante i lavori del Concilio Vaticano II, e in tal modo egli concepì e visse il rinnovamento liturgico nella Chiesa cattolica.
Questo dunque il primo pilastro della architettura del pensiero dossettiano (anche se il monaco di Monte Oliveto non avrebbe mai visto se stesso come un ideologo), a cui si affianca quello del suo profondo senso della storia. In una conversazione con alcuni giovani sacerdoti della Diocesi di Foggia avvenuta nell'autunno del 1996, pochi mesi prima della morte, Dossetti esortava alla conoscenza approfondita della storia come a un modo per affrancarsi dalla cronaca, dalla schiavitù del presente che appiattisce la memoria e rende incapaci di comprendere il futuro. Un consiglio che sembra straordinariamente fuori contesto in un'epoca come la nostra dove proprio nulla, in sede politica come culturale, sembra essere pensato per durare o essere conservato nell'ansia generalizzata di consumare e distruggere un orizzonte immobile. Non si tratta di vieto moralismo, visto che uno studioso di universale prestigio come Zygmunt Bauman trova proprio in questo schiacciamento sul presente il segno di quella liquidità diffusa che descrive così bene la nostra epoca.
E così e siamo al terzo pilastro, si interpreta la fedeltà professata da Dossetti alla Costituzione e al Concilio, visti non tanto come i capolavori della sua vita o come un'ideologia surrogatoria, secondo le parole del discepolo rinnegato Baget Bozzo, ma ambedue come programmi rimasti ancora inespressi nel pieno delle loro potenzialitò al netto degli errori e delle possibili riforme. In particolare sulla Costituzione Dossetti fin dal 1951 avanzò proposte precise per una più funzionale suddivisione dei poteri e per una maggiore efficienza dell' esecutivo: ciò a cui si ribellava costantemente era la pretesa di scaricare sulla Costituzione le inefficienze e l'irresponsabilità del ceto politico. L'elenco delle questioni irrisolte che la politica avrebbe potuto affrontare senza scomodare come diceva lui, la Costituzione, Dossetti lo stilò fin dal 1995 : le tendenze recessive dell'economia ed il calo non congiunturale ma sistemico dell'occupazione, la disciplina dei mezzi di comunicazione, il degrado delle grandi città l'arrivo e l'integrazione dei nuovi immigrati, la tensione delle periferie urbane, il saccheggio ecologico, il rigurgito dei razzismi e degli estremismi religiosi Nessuno impediva al potere politico in questi vent'anni di provare a risolvere questi problemi strutturali del nostro Paese: nessuno salvo l'evidente mancanza di volontà che per nulla ha a che fare con i vincoli costituzionali.
Quella del politico e monaco Dossetti è effettivamente una memoria pericolosa come accade per tutti quelli che prendono sul serio il messaggio evangelico, ed comprensibile che il suo essere sentinella e discepolo faccia ancora paura a molti che vorrebbero condannarlo all'oblio. Ma per chi ha il coraggio di andare al cuore di un messaggio che va oltre un'esperienza storica probabilmente irripetibile, c'ancora molto da ricavare per la vita della Chiesa e per quella del mondo.


( Lorenzo Gaiani - Giornale dei Lavoratori )


11/04/2009


Il piccolo libraio di Archangelsk

Ho letto per voi…Iniziano così in genere le recensioni professionali.
In realtà, questo libro io l'ho letto per me e mi limito a dirvi le mie impressioni e a segnalarvelo: non sono un recensore professionista e me lo posso permettere.
Scritto nel 1956, Il piccolo libraio di Archangelsk è uno di quei libri che il suo autore, Georges Simenon, chiamava roman roman (romanzi romanzi ) per distinguerli dai Maigret per i quali forse massimamente è conosciuto. Dico forse, perché chi legge sa bene quanta bellezza si racchiuda nell'intera produzione dello scrittore belga e quanto bene stia facendo Adelphi ad editarne l' opera complessivamente.
"Il signor Jonas" , Jonas Milk, vive in Francia e si è integrato quel che basta. Ha una piccola libreria in una piazza dove la vita si anima di mercato tutte le mattine e lui consiglia, vende libri e vive solo: casa e negozio.
Poi gli entra in casa Gina, una ragazza ancheggiante e disinvolta, che popola le fantasie( e non solo quelle) dei maschi rapaci. Da domestica gli diventa moglie, ma a un certo punto si dissolve nel nulla. Jonas non racconta a nessuno che è sparita, dice che è partita e che lui l'aspetta. Di bugia in bugia, mentendo ostinatamente innanzi tutto a se stesso , crea progressivamente un clima di sospetto che lo renderanno l'unico indagato della scomparsa di sua moglie. Fino a un finale sorprendente.
Ci sono tutti gli ingredienti della narrazione simenoniana: l'indagine acuta ma mai severa dell'animo umano, la descrizione bonaria ma non superficiale dei caratteri, il gusto descrittivo delle cose minime. Ma anche la modalità di indagine della polizia francese, tanto cara ai lettori di Maigret; l'occhio aperto sulla famiglia e le sue relazioni (quindi sulle famiglie); l'integrazione tra i popoli con lo spostamento di milioni di persone da una terra all'altra che ha caratterizzato il secolo scorso e già il primo scorcio di questo. Archhangelsk è un paese sul Mar Bianco, "nella parte alta della carta geografica", ma Jonas è l'unico dei suoi molti fratelli a non aver mai visto la Russia che,abbandonata a un anno di vita, cercherà di conoscere da adulto con una preziosa collezione di francobolli. L'unica cosa che Gina porterà con sé sparendo.
Bellissimo e struggente il ricordo della famiglia, della sorella Dussia che in particolare spesso ricorre; malinconica ma in fondo tenera la prima notte di nozze; efficace la descrizione del cinismo dei caratteri e delle miserie umane. Emerge la prova che la verità non sempre si impone alle menzogne che costruiamo, spesso, per coprire le nostre profonde fragilità. E Jonas- che a Gina perdona tutto,dalla sciatteria alla pigrizia alla reiterata infedeltà- a se stesso in realtà non perdona nulla.


(Cesare Paradiso)

























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